Cuculetto il brigante di Penne

IL PROCESSO

Entrambi assicurati alla giustizia, per Cuculetto e Ursi si istruirono i primi atti per condurli davanti ai banchi di un tribunale. Un primo adempimento venne compiuto dal Pubblico Ministero presso la Corte di Appello di L'Aquila che si pronunciò così:
“Letti gli atti a carico di Emidio D’Angelo, detto Cuculetto, di Tommaso, di anni 30, contadino di Penne e di Andrea Ursi, fu Pietro, di anni 36, contadino di S. Gregorio Magno (Salerno);

Imputati di

  1. Grassazione accompagnata da percosse costituenti delitto, per avere nel giorno 29 ottobre 1873, in contrada Collefreddo, tenimento di Civitaquana, aggredito con violenza, e percosso il Guardaboschi Errico Frattaroli, e depredato di un fucile, di una giacca, e di un sacco a pane;
  2. Estorsione della somma di Lire 1200:00 con sequestro di persona in danno del Canonico Simone Perrotti, nel dì 4 e 5 novembre 1873.

Il solo Emidio D’Angelo inoltre di:

  1. Grassazione a mano armata in pregiudizio di Pasquale Beati, residente in Penne, nel dì 16 novembre 1873;
  2. Di assassinio in persona del Canonico Simone Perrotti di Penne, nel 25 novembre 1873;
  3. Tentata grassazione avvenuta in tenimento di Loreto Aprutino in danno di Luigi Fasoli di Chieti, Domenico e Rosario, padre e figlio, Cantagallo, di Penne, nel dì 4 dicembre 1873.

Osserva


Che pel I° reato le offese riportate dall’aggredito Frattaroli risultano dai verbali del relativo primo volume, e che la reità dei due imputati, D’Angelo, ed Ursi, è provata colle dichiarazioni dei testimoni e dall’atto di ricognizione;
Che pel II° reato la prova generica risulta dai fogli del relativo primo vol.; e che la reità dei due imputati si è stabilita colle dichiarazioni dei testimoni;
Che per III° reato trovasi il reperto di ricognizione della borsa di Pasquale Beati, e che Emidio D’Angelo è convinto della reità di questa grassazione dal deposto dei quattro voluti complici, poscia scagionati dal biglietto esibito da Buccella solo il 18, che è di carattere del D’Angelo. Oltre a ciò il fucile depredato al Beati fu sequestrato a quest’imputato D’Angelo nell’atto del di lui arresto;
Che pel IV° reato, esso è genericamente provato dai verbali corrispondenti, e che la reità del D’Angelo chiosa apparisce dalle deposizioni dei tre testimoni Barbacane, Mellone e Toppeta, alla presenza dei quali egli trafisse il Canonico Perrotti;
Che pel V° reato, trattandosi di reato mancato non trovasi nel Vol. 1° corrispondente che i soli atti di ricognizione; e che pel D’Angelo la reità è stabilita dall’immediato contesto, dalla dichiarazione del carrozziere e dal riconoscimento che i tre aggrediti fecero dell’imputato; che a carico del prevenuto Ursi Andrea dalla Sezione di Accusa di Napoli è stata pronunciata accusa pei reati nella sentenza indicata dal Procuratore Generale di quella Corte di Appello; che il reato più grave di cui deve rispondere il d’Ursi è quello segnato nella requisitoria, sicchè si appartiene alla Corte d’Assise di Teramo la competenza a conoscere questo reato e gli altri perpetrati sia in questo Distretto, sia in quello della Corte di Appello di Napoli.

Chiede


Che sia pronunciata l’accusa contro i giudicabili Emidio D’Angelo ed Andrea Ursi; e siano inviati insieme nel giudizio innanzi alla Corte d’Assise, Circolo di Teramo per rispondere dei reati in rubrica, rispettivamente ascritti, ed il d’Ursi anche di quelli pei quali è stato accusato dalla sentenza della Sezione d’accusa di Napoli”.

 

Il Canonico mandante del primo omicidio
Durante la fase istruttoria del processo a carico di Cuculetto, in un interrogatorio l’accusato rilasciò alcune dichiarazioni circa i motivi che lo indussero a commettere il suo primo omicidio che costò la vita a Francesco Di Giovanni detto Tenente. Di seguito è quanto venne messo a verbale:
“L’anno mille ottocento settantacinque, il giorno diciotto del mese di Maggio, in Teramo, nel carcere giudiziario, Noi Camelio Cocchia, Presidente della Corte di Assise di Teramo, assistito dal Vice-Cancelliere Sig. Giovanni Rubini; veduti gli atti a carico dell’accusato Emidio D’Angelo; veduta la sentenza del dì 1° Ottobre 1874 che pone l’imputato in istato di accusa, e lo rinvia innanzi questa Corte di assise; veduto l’atto col quale il Pubblico Ministero accusa l’anzidetto imputato di grassazione, assassinio ed altro; veduto l’atto di notificazione fatta all’accusato della Sentenza ed Accusa suddetta; veduti gli art. 456 e 457 del Codice di procedura penale, e in esecuzione di quanto con essi dispone, abbiamo fatto venire innanzi a Noi, nella sala degli esami l’accusato libero e sciolto da ogni ligame, il quale domandato delle sue qualità personali ha risposto. Sono Emidio D’Angelo, di soprannome Cuculo, figlio di Tommaso di anni 31 nato a Penne ivi domiciliato, di condizione contadino impossidente, so leggere e scrivere, non sono sposato, altra volta condannato a venti anni di lavori forzati per omicidio.
Interrogato sui fatti per i quali è stato rinviato a giudizio innanzi le Assise, e datogli lettura de’ precedenti interrogatori da lui resi ha risposto: Confermo tutti i precedenti miei interrogatori dei quali mi avete dato lettura, meno quelli relativi alla estorsione con sequestro della persona del Canonico D. Simone Perrotti ed all’omicidio dello stesso, poiché intendo ritrattarli e di confessare di aver commessi tali reati e ne dirò anche la ragione.
Sono colpevole di omicidio volontario in persona di Francesco di Giovanni, fui condannato in Marzo del 1865, a venti anni di lavori forzati. Ora è a sapere che quell’omicidio fu da me commesso per mandato del detto Canonico D. Simone Perrotti e di suo fratello D. Raffaele, i quali avvalendosi della inesperienza dell’età mia giovanile di allora, tanto mi seppero lusingare da indurmi a commettere il reato previa promessa di ducati trecento in contanti, e di volermi dare a colonia un loro fondo. Anzi nel giorno dell’avvenimento per vieppiù determinarmi a commette il reato, mi tennero diverse ore in casa loro, mi fecero bere molto vino, e mi armarono di coltello che adoperai contro il di Giovanni. Con costui essi l’avevano per continui danni commessi alla loro proprietà ed anche ai Magazzini che detenevano in Penne.
Condannato irrevocabilmente, fui mandato al luogo di pena e proprio nel bagno di Gaeta, e sebbene avessi ripetute richieste  fatte al Perotti di pagarmi la somma promessa, non potetti mai avere alcuna somma; invece una volta fece pagare a mia madre la tassa di posta di una lettera da me scritta da Gaeta.
Dall’indicato bagno mi riuscì di evadere il 20 Ottobre 1873, insieme all’altro servo di pena Andrea Ursi, e con costui mi diressi verso la mia patria, non senza avergli, via facendo, manifestato che era mia intenzione di farmi pagare dal Perrotti la nominata somma, ancorchè si fosse dovuto sequestrare. Infatti nel 4 Novembre 1873, in vicinanza di Penne trovai detto Canonico, dal quale, dopo molti stenti, potetti avere appena quattrocentoventi lire, ed in quella circostanza non molestai minimamente il Perrotti. Né lo avrei molestato in seguito se costui non avesse con pubblici manifesti messo in premio di ottocento lire per chi mi avesse preso vivo o morto. Anzi neanche ciò mi avrebbe spinto alla uccisione di lui, se nel 25 dello stesso mese ed anno, incontratomi con lui nelle vicinanze di Penne, non avesse fatto atto di volermi uccidere con un revolver.
Mi riservo di produrre i testimoni a mio discarico.
Invitato a scegliere un difensore ha risposto di essere difeso dal Signor Achille Ginaldi”.

Riguardo a questo argomento venne prontamente interrogato Andrea Ursi il quale rispose:
“Nulla debbo aggiungere agli interrogatori di cui mi avete dato lettura ed ai quali pienamente mi riporto.
Ripeto di non essere mai stato in Penne in compagnia di Emidio D’Angelo, dal quale non ho quindi appreso il motivo per cui si recava in detto suo paese”.

Il processo iniziò a Teramo il 2 Novembre 1875. Nello stesso giorno furono ascoltati diversi testimoni. Altri ancora il giorno successivo. Alcuni testi chiamati a discolpa di Cuculetto, previo invio di certificazione medica, non si presentarono. A costoro la Corte concesse la “prerogativa” di essere interrogati a Penne.

“L’anno 1800 settantacinque, il quattro Novembre, in Penne.
Noi Luigi D’Ippolito, Giudice di Assise di Teramo, all’uopo delegato con ordinanza di ieri, assistiti dal nostro Cancelliere Giovanni Rubini, coll’intervento del Procuratore del Re, Sig. Andrea Piotto, rappresentante il Pubblico Ministero, dell’avvocato locale Sig. Angelo Pellegrini, nominato dall’accusato Emidio D’Angelo all’udienza di ieri, per assistervi nel suo interesse, ci siamo recati nel Palazzo abitato dalla Signora Marchesa D’Assergio, che per essere inferma non ha potuto presentarsi giusta l’invito fattole, nella Cancelleria della Pretura.
La nobil Signora D’Assergio ci ha ricevuti nel salotto della sua abitazione, ove le abbiamo fatto manifesto che deve essere sentita come testimone data a Difesa di Emidio D’Angelo, di Penne, accusato di assassinio del Canonico D. Simone Perrotti e di altri crimini.
Quindi le abbiamo fatto una seria ammonizione sulla importanza del giuramento, rammentandole le pene stabilite contro i falsi o reticenti testimoni negli articoli 365, 366 e 369 codice penale.
Dopo ciò essa testimone stando in piedi e con la mano destra sui Santi Evangeli ha giurato di dire tutta la verità e null’altro che la verità.
A domanda quindi ha risposto chiamarsi Anna Pignatelli, de Duchi di Montecalvo del vivente Calvo, di anni 22, gentildonna, nativa di Napoli, domiciliata in Penne, maritata D’Assergio; non conosceva gli antefatti, e non vi ha alcun rapporto, come neppure colle parti lese.
Ad opportuna domanda, ha risposto: Nulla conosco dei fatti della causa.
Ad altra domanda ha risposto: A me non costasi essersi il D’Angelo incontrato con persone facoltose di qui, né che avesse preteso denaro. Ho inteso dire che si sia incontrato col Marchese Castiglione, al quale so di propria scienza che non abbia richiesto denaro od altro. In questa società, venendo delle persone, dicevano di essersi incontrate col D’Angelo, ma che però nessuno era da lui molestato.
Presa da curiosità, mi recai nella caserma dei Reali Carabinieri per vedere il D’Angelo lorquando fu arrestato, e questi mi domandò se io mi fossi la marchesa D’Assergio; alla risposta affermativa, mi soggiunse che egli mi aveva incontrata il martedì o il mercoledì precedente al suo arresto, mentre andavo in carrozza con la mia cameriera che si chiama Brigida Paglino. Io fui presa da forte timore nel sentire di essermi incontrata col D’Angelo, perché qui eravamo tutti intimoriti per la presenza del D’Angelo in queste contrade, per tal modo che la mia passeggiata si riduceva a breve distanza dal paese e propriamente fino alla croce, che dista un trecento e più metri dal paese medesimo
Il timore fu concepito da noi tutti perché si diceva essere il D’Angelo fuggito dalla galera, però il medesimo si portò da un Guardia Municipale addetto alla Pubblica Sicurezza per sapere da costui perché lo pedinasse, e non conosco altri fatti che avesse commessi. Ho appresa dalla voce pubblica che il D’Angelo si fosse indotto ad uccidere il Canonico, perché questi non avevagli voluto pagare una somma concordata, e promessagli per la uccisione di un tal Francesco Di Giovanni, soprannominato Tenente.
Previa lettura e conferma si è sottoscritta”.

Seguono gli interrogatori di altri testimoni che per motivi di salute non si erano presentati a Teramo:
“Previa chiamata è comparso il testimone Signor Tommaso Castiglione, al quale abbiamo fatto noto che dev’essere inteso come testimone dato a difesa da Emidio D’Angelo, accusato di assassinio in persona del Canonico D. Simone Perrotti e di altri crimini. Quindi gli abbiamo fatto una seria ammonizione sulla importanza del giuramento. Dopo di che ha giurato.
A domanda ha risposto chiamarsi Tommaso Castiglione, del fu Giuseppe Angelo, di anni 70, proprietario di Penne. Non conosco gli antefatti e non ho rapporto alcuno, come neanche con le parti lese.
Conosco per voce pubblica che Emidio D’Angelo, soprannominato Cuculetto, abbia assassinato il Canonico D. Simone Perrotti, perché il detto Canonico non volle dargli una somma promessagli allorchè fu da esso D’Angelo sequestrato.
Ripeto di non conoscere l’Emidio D’Angelo, per cui non posso dire se l’abbia alcuna volta incontrato. E’ certo però che nessuna somma mi è stata mai richiesta né a nome del D’Angelo, né di altri. Non ho inteso da alcuna persona facoltosa di qui, che le sia stato richiesto denaro dal D’Angelo.
Quando il D’Angelo sequestrò il Canonico Perrotti, dalla voce pubblica ho saputo che il D’Angelo avesse detto di aver ciò praticato per non essere stato pagato di una somma che il Canonico gli doveva per l’uccisione di Francesco Di Giovanni, soprannominato Tenente.
Queste notizie le ho sentite girare pel paese. Anche dopo la uccisione del Di Giovanni a prima della evasione del D’Angelo da Gaeta, si diceva che il medesimo D’Angelo avesse ucciso il Di Giovanni per mandato del Canonico Perrotti, perché a costui il Di Giovanni aveva tagliato delle piante di ulivi.
Siccome il Canonico era molto interessato, a mio giudizio credo che abbia potuto incaricare il D’Angelo ad uccidere il Di Giovanni per i patiti danni, ma al riguardo nulla mi consta di positivo.
Quando il D’Angelo dopo la evasione scorrazzava per queste campagne, nessun cittadino si permetteva di uscire non solo dal paese, ma per così dire neppure dalla casa per l’immenso timore che si  provava”.    

Il 6 Novembre 1875 fu emessa la seguente sentenza:
“La Corte di Assise del Circolo di Teramo composta dai Signori Canelio Cocchia, Presidente, Luigi d’Ippolito e Francesco Calabria, Giudici. Nella causa a carico dei carcerati Emidio D’Angelo, di soprannome Cuculo di Tommaso, di anni 31, contadino di Penne ed Andrea Ursi del fu Pietro di anni 39, contadino di S. Gregorio Magno; Accusati

  1. di grassazione di un fucile, una giacca ed un sacco in danno di Errico Frattaroli;
  2. di estorsione, con sequestro di persona e maltrattamenti, della somma di Lire 1200  in pregiudizio del Canonico D. Simone Perrotti.

Il solo Emidio D’Angelo accusato anche:

  1. di grassazione di un fucile ed una borsa in danno di Pasquale Beati;
  2. di assassinio per premeditazione in persona del Canonico Simone Perrotti;
  3. di tentata estorsione in danno di Luigi Fasoli, Domenico e Rosario.

Il solo Andrea Ursi accusato anche:

  1. di mancato omicidio volontario in persona di Alfonso Alfano;
  2. di grassazione di un fucile con le rispettive munizioni in pregiudizio di Luigi Robertazzi;
  3. di grassazione di lire cinquanta a danno di Onofrio Pacelli;
  4. di estorsione violenta della somma di lire dieci in pregiudizio di Antonio Pignataro.

Con l’aggravante della recidiva a carico di entrambi gli accusati.
Dopo la lettura data dal Cancelliere in pubblica udienza ed in presenza degli accusati, della dichiarazione dei Giurati.
Dopo avere udite le conclusioni del Pubblico Ministero rappresentato dal Procuratore del Re Signor Luca Capponi, con la quale, in conseguenza del verdetto del Giurì ha chiesto condannarsi Emidio D’Angelo ai lavori forzati a vita, ed Andrea Ursi a trenta anni di lavori forzati. Entrambi alle conseguenze di legge.
Dopo uditi i Signori Achille Ginaldi, ed il Sig. Francesco Pistilli difensori degli accusati suddetti nell’applicazione della legge i quali si son rimessi alla giustizia della Corte.
E dopo aver uditi gli accusati stessi i quali hanno avuti la parola in ultimo.
Si è ritirata nella Camera di Consiglio, fuori la presenza del U. P., del Cancelliere e di ogni estranea persona immediatamente dopo terminati il dibattimento.
Sulla convenevole questione proposta dal Presidente, la Corte, attesochè con la dichiarazione dei giurati, sono stati ritenuti colpevoli Emidio D’Angelo e Andrea Ursi;

  1. di grassazione di un fucile, di una giacca, e di un sacco a pane commessa da due persone il 29 ottobre 1873, in tenimento di Civitaquana, in danno di Errico Frattaroli;
  2. di estorsione di £. 1200 commessa il 4 novembre 1873 in quel di Penne, in danno del Canonico D. Simone Perrotti, con minacce di morte, con sequestro della persona del Perrotti e con cattivi trattamenti verso lo stesso.

Attesochè con le medesime dichiarazioni dei giurati Emidio D’Angelo è stato ritenuto colpevole:

  1. di grassazione di un fucile a due colpi, e di una borsa di pelle, commessa con violenza e minacce non costituenti crimine o delitto, il 16 novembre 1873, fuori Penne in danno di Pasquale Beati;
  2. di assassinio per premeditazione in persona del Canonico D. Simone Perrotti, commesso il 25 novembre 1873, con circostanze attenuanti.

Attesochè con le ridette dichiarazioni dei giurati Andrea Ursi è stato ritenuto colpevole:

  1. di percossa volontaria in persona di Enrico Frattaroli commessa in tenimento di Civitaquana, il 29 ottobre 1873, e portante incapacità di lavoro per giorni venti;
  2. di grassazione di un fucile colle rispettive munizioni in danno di Luigi Robertazzi, commessa nel 18 dicembre 1873 nell’agro di Buccino, da una sola persona munita di arma apparente;
  3. di grassazione di lire cinquanta, in danno di Onofrio Pacelli, commessa anche il 18 dicembre 1873, nel Castagneto di Palomonte, da una persona munita di arma apparente;
  4. di estorsione di lire dieci in danno di Antonio Pignataro commessa con minaccia d’incendio della masseria di costui in giorno non precisato del mese di dicembre 1873, in S. Gregorio Magno, con circostanze attenuanti.

Attesochè la depredazione commessa da due persone, ancorchè non armate, ed anche da una sola persona munita di arma apparente, e quella commessa con violenza e minacce non costituenti crimine o delitto, costituiscono la grassazione, sono previste dal n° 4 dell’art. 596 cod. pen. e pel successivo art. 597 n° 4 detto Codice si puniscono coi lavori forzati a tempo estensibili ad anni quindici.
Attesochè la estorsione di denaro commessa con minacce di morte, con sequestro della persona, e con cattivi trattamenti al sequestrato, è previsto dagli art. 601, 602 e 603 Cod. pen. e si punisce col maximum dei lavori forzati a tempo.
Attesochè la estorsione di denaro commessa con minacce d’incendio è prevista dall’art. 601 cod. penale e si punisce colla reclusione, ed anche coi lavori forzati a tempo a seconda dei casi, avuti massimo riguardo all’importanza del male minacciato.
Attesochè la percossa volontaria portante incapacità di lavoro per venti giorni, è prevista dall’art. 543 cod. pen. e si punisce col carcere da un mese a due anni.
Attesochè l’omicidio volontario è previsto dall’art. 522 del cod. penale, e quando è commesso con premeditazione, è qualificato assassinio, visto l’art. 526 medesimo Codice, e per l’altro articolo 531 dello stesso Codice, si punisce colla morte.
Attesochè il condannato a pena criminale che commette altri crimini, soggiace alle pene stabilite pei nuovi crimini coll’aumento di uno o due gradi, art. 122 Cod. penale, non ascendendosi però mai alla pena di morte senza espressa determinazione della legge art. 84 ult. cap. Cod. Penale. Risulta dagli atti che all’epoca dei commessi reati d’Angelo e Ursi trovavansi precedentemente condannati a pena criminale.
Attesochè nel concorso di più crimini punibili coi lavori forzati a vita, e con pene temporanee, si applica la sola pena a vita, art. 107 cod. penale.
Attesochè nel concorso di due o più crimini importanti più pene temporanee o dello stesso, o di diverso genere, si applica la pena più grave, aumentata, secondo il numero dei reati, e le qualità delle pene incorse, ed ove occorra di aumentare la pena temporanea oltre il maximum, di ciascuna di dette pene, l’aumento ha luogo entro il limite di anni cinque, art. 109 Cod. Penale.
Attesochè nel concorso di reati punibili di pena criminale, e correzionale, questa è assorbita dall’altra, art. 110 detto codice.
Attesochè la condanna dei lavori forzati a vita trae seco la perdita dei diritti politici, della potestà patria, e maritale, e la interdizione legale del condannato, art. 3 del decreto 30 novembre 1865 n° 2606.
Attesochè la condanna ai lavori forzati a tempo, se è pronunziata per crimini di grassazione ed estorsione porta seco l’interdizione dai pubblici uffici, e durante la pena l’interdetto legale del condannato, il quale dopo va soggetto alla sorveglianza speciale della Pubblica Sicurezza, per tempo non minore di tre, né maggiore di anni dieci, art. 21, 22, 45 e 46 Cod. Penale.
Attesochè i condannati sono tenuti al ristoro dei danni ed alle spese del giudizio, solidamente pei reati commessi in comune, art. 75 Cod. Pen. e 568 e 569 Cod. Proc. Penale.
Attesochè le sentenze di condanna ai lavori forzati a vita, e quelli di condanna ai lavori forzati a tempo pronunciate pei crimini di grassazione, o di estorsione, vanno stampate affine e pubblicate, nei modi e luoghi dalla legge indicati, art. 23 Cod. Penale.
Visti i citati articoli 596 n° 4, 601, 602, 603, 543, 522, 526, 531, 122, 84, 684, 107, 109, 110 Cod. Pen. – Art. 3 del decreto 30 novembre 1865 n° 2606, 21, 22, 45, 46, 75, 23 Cod. Pen. 568 e 569 Cod. Procedura Penale; la Corte,

Condanna

  1. Emidio D’Angelo, di Tommaso, di anni 30, contadino di Penne, ai lavori forzati a vita, alla perdita dei diritti politici, della potestà patria e maritale, ed alla interdizione legale;
  2. Andrea Ursi, fu Pietro, di anni 36, contadino di S. Gregorio Magno, in provincia di Salerno, a ventuno anni di lavori forzati, all’interdizione dai pubblici uffici, all’interdetto legale durante la pena, la quale espiata lo assoggetta alla sorveglianza speciale della pubblica sicurezza per anni tre.

Dichiara nell’or detta pena criminale assorbita l’altra correzionale in cui incorso esso Ursi.
Condanna i nominati d’Angelo ed Ursi al ristoro dei danni verso le parti lese, ed alle spese del giudizio in pro dell’Erario dello Stato colla solidarietà pei reati dei quali sono stati ritenuti correi.
Ordina restituirsi nei modi e termini di legge ai legittimi proprietari gli oggetti posti sotto sequestro di loro peculiare spettanza.
Finalmente ordina che la presente sentenza sia stampata, affissa e pubblicata nei modi e luoghi indicati dalla legge.
Deliberata in Camera di Consiglio e pubblicata all’udienza del dì sei novembre 1875”.

Contro la condanna Cuculetto fece presentare ricorso alla Corte di Cassazione. La Suprema Corte, in data 26 settembre 1876, si pronunciò così:
“La Corte di Cassazione di Roma, dichiara inammissibile il ricorso intentato da D’Angelo contro la sentenza della Corte d’Assise di Teramo del 6 Novembre 1875 e lo condanna nelle spese”.

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