Cuculetto il brigante di Penne

IL FRATELLO CARLO

Tutto sommato, l’arresto avvenuto il 19 Novembre 1873, per il fratello Carlo fu un colpo di fortuna. Infatti, se il Delegato alla Pubblica Sicurezza di Penne non avesse trovato a suo carico le prove per metterlo in carcere, da libero, quale potenziale complice del fratello Emidio, sicuramente sarebbe stato coinvolto in ben più gravi misfatti.
Ecco quanto si realizzò:
“L’anno 1873, in questo dì 19 Novembre, alle ore 10 e un quarto, nel corridoio dell’Ufficio di P.S. in seguito delle deposizioni ed informazioni assunte dal sottoscritto Delegato dai quale emerge che D’Angelo Carlo, di Tommaso, di anni 31, contadino fratello al bandito D’Angelo Emidio, fece parte di una comitiva armata composta dai due D’Angelo predetti e dall’evaso Ursi Andrea, ho ordinato l’arresto del D’Angelo Carlo che fu immediatamente eseguito dagli agenti in servizio. Indi ricondotto in ufficio e perquisito attentamente gli si rinveniva un piccolo coltello che non avrebbe dovuto portare essendo il D’Angelo sottoposto alla speciale sorveglianza della P. S.; e dopo molte ricerche si rinvenne cucite nella fodera del gilet un gruppetto di carta che previa scucitura del gilet si scoprì composto da N° 10 biglietti da lire 5 ciascuno; nove della Banca Nazionale ed uno del Banco di Napoli.
Interpellato sulla provenienza di detto denaro disse che l’aveva portato dal Bagno ove aveva filato la stoppa e fatto il caffettiere per cinque anni mentre scontava la pena.
E’ qui a considerarsi che il D’Angelo predetto ha espiato la pena di 13 anni di lavori forzati.
Non essendoci a dubitare che i denari predetti non siano di provenienza furtiva ma probabilmente il fruttato del ricatto del Perrotti”.

Una volta arrestato, Carlo D’Angelo venne sottoposto ad ulteriore interrogatorio, nel corso del quale modificò la sua versione.
“L’anno 1873 in questo dì diciannove Novembre, fatto scortare è comparso l’arrestato D’Angelo Carlo, di Tommaso, d’anni 31, nato e domiciliato a Penne, contadino alfabeta.
Essendosi al medesimo alla presenza del sottoscritto rinvenute nella fodera del gilet Lire 50-cinquanta, in tanti biglietti di lire 5, nove della Banca Nazionale ed uno del Banco di Napoli ed interpellato sulla provenienza di detto denaro rispose:
Questi denari sono il fruttato della vendita di una capretta, una pecora ed un porco alla fiera di Loreto. Io non so il nome degli individui ai quali furono venduti detti animali, ma li conosco soltanto di vista.
La pecora l’ho venduta sui quattro ducati e la teneva mio padre, la capra per ventotto carlini, ed il maiale per quarantacinque carlini, ed anche questi animali erano di mio padre, ed il resto sono undici lire per un barile di vino che ho venduto ieri.
I soldi li portavo cuciti dentro al gilet per timore che mia sorella me li avesse presi.
La capretta l’ho venduta sabato scorso, la pecora sono 28 giorni circa, ed il maiale alla fiera di Loreto che avvenne il 15 settembre.
Quando in precedenza ho detto che i soldi li avevo portati dal Bagno non è vero.
Uscito dal Bagno portai con me sei o sette lire.

CONNOTATI PERSONALI DI CARLO D’ANGELO

Statura: metri 1,65
Capelli e ciglia: rossi
Fronte: regolare
Occhi: marroni
Naso: aquilino
Bocca: regolare
Viso: ovale
Colorito: naturale
Marche particolari: una lentiggine sotto l’occhio destro

Il giorno 21 Novembre 1873, fu direttamente il Pretore di Penne ad interrogare Carlo D’Angelo, che così rispose:
“Sono Carlo D’Angelo detto Cuculo, di Tommaso, di anni 31, contadino di Penne, impossidente, so leggere e scrivere, non ho fatto il militare, e sono stato carcerato per circa tredici anni per i fatti del milleottocentosessanta.
Venni arrestato ieri l’altro nell’Ufficio e per ordine del Delegato di Pubblica Sicurezza. Apprendo ora da lei il motivo.
Io nego di essermi associato al fuggiasco mio fratello Emidio D’Angelo, che ho visto una sola volta di pieno giorno mentre stavo a pascere gli animali vicino a questo Camposanto. Distante da lui circa venti passi stava uno sconosciuto che sento dire possa essere un suo compagno di carcere, ma non gli parlai.
Non avevano armi sia l’uno che l’altro. Io rimproverai al mio fratello la sua evasione, e ne ebbi in risposta che badassi ai fatti miei. Se non erro ciò avvenne il giorno dei morti o nel successivo, perché ricordo che la sera fu illuminato il Camposanto. La notte non sono sortito mai specialmente dopo i precetti fattimi dalla Pub. Sicurezza, che munì di carta di permanenza il sedici di questo mese.
Ho sentito dire che il detto mio fratello abbia estorto al Canonico Perrotti una vistosa somma. A quel fatto io non presi parte alcuna né prima né dopo, ed è infondato il sospetto che le lire cinquanta rinvenutemi all’atto dello arresto, inserite nel cinturino del gilè, provengono da quel reato.
Sulle prime ho dichiarato di aver risparmiata detta somma quando stavo in carcere e facevo il caffettiere ai carcerati. Al momento essendo rimasto confuso non mi sovveniva la vera giustificazione, ma poi l’ho data ed è questa. Dal carcere non portai che sei o sette lire, il resto è un residuo del ricavo della vendita che ho fatto di un terreno al prete Massimo Mancini; per ducati dodici, di una capra che vendei sabato scorso in questo mercato per 28 carlini, di una pecora che vendei quattro o cinque settimane dietro a Salvatore Zicola detto Vituccio per quattro ducati, di un maiale che vendei a un forestiero per quattro ducati e mezzo alla fiera, se non erro, del quindici Settembre in Loreto Aprutino, ed infine sulla vendita di un barile di mosto alla moglie dello Sbirrotto al prezzo di lire undici. Sortito dal carcere mi son messo io a capo della famiglia, e per ciò il denaro lo conservo io stesso, e da quattro o cinque giorni per maggiore sicurezza, ed onde sottrarlo alle infedeltà di quelli di casa l’avevo cucito nel gilè. Erano, ripeto, cinquanta lire, perché il resto fu consumato per i bisogni di famiglia, ed in estinzione di un debito di otto ducati verso il prete Mancini. Le monete sono tutte da lire cinque della Banca Nazionale ed una del Banco di Napoli. Me le sono procurate dando in cambio monete di rame, da persone che non so indicare, tra cui un merciaio ambulante che volle tre soldi di aumento per venti lire.
Mi fu pure trovato indosso un piccolo coltello di forma non vietata che poco prima avevo adoperato per tagliare i peperoni dentro casa. Per l’abitudine me lo sono dimenticato nelle tasche senza intenzione di violare il precetto fattomi di non portare armi.
Presente alla vendita della pecora era Vincenzo D’Addazio.
Quelli che mi mostrate mi sembrano i biglietti di cui ho discorso. Riconosco il coltello per quello stesso che mi fu trovato nella tasca.
Sulla mia condotta prego di sentire i miei vicini di casa”.

Per verificare la veridicità di quanto dichiarato, il Pretore di Penne convocò alcuni testimoni nel suo ufficio, i quali così risposero:

“Sono Domenicantonio de Fabritiis, fu Antonio di anni 52, contadino di Penne. Indifferito.
Tommaso D’Angelo, detto Cuculo, teneva un appezzamento di terreno di Don Massimo Mancini a colonia parziaria; e non potendo avere la semenza dal padrone, per non aver a costui estinto il suo debito di ducati otto pari a lire 34:00, coll’accordo del Mancini mi presi io e pattuii col D’Angelo per lire 51 le maggesi da lui fatte. Con questa somma estinse il debito di lire 34:00 al Mancini, e le rimanenti lire diciassette le consegnai a Carlo D’Angelo figlio di Tommaso. Tutto ciò avvenne nei principi di novembre”.

“Sono Antonio Musa alias Tontarelli, di Liberato, di anni 28, contadino di Penne. Indifferito.
Ricordo benissimo che un giorno verso i principi di Novembre nel mercato che ricorreva qui a Penne, acquistai una capra da Carlo D’Angelo di Tommaso, per la somma di carlini ventotto pari a lire 11:90”.

“Sono Salvatore Zicola di Antonio, di anni 32, contadino domiciliato in tenimento di Penne. Indifferito.
Nel pubblico mercato di questa città comprai da Tommaso D’Angelo, padre di Carlo D’Angelo, una pecora con lana bianca per il prezzo di quattro ducati pari a lire 17:00.
Nell’atto della compra non si trovò presente Carlo D’Angelo. Non so se costui conviveva col padre. Ciò rimanda ai primi di Novembre”.

“Sono Massimo Mancini fu Francescopaolo, di anni 34, Sacerdote di Penne. Indifferito.
Tommaso D’Angelo ha tenuto per diversi anni un mio fondo a colonia parziaria; e siccome dopo il raccolto dell’anno scorso rimase a pagarmi la somma di lire trentaquattro, così in Novembre non volli accredenzargli la semenza. Egli aveva già fatto le maggesi, e per non perdere tutto il lavoro, rilasciò il terreno a Domenicantonio, e costui pagò a me le lire trentaquattro, di cui ero creditore verso il D’Angelo. Non so poi per quale somma fosse stata valutata le maggesi”.

Carlo D’Angelo, scontata la pena di tredici anni di lavori forzati, in buona parte trascorsi nel carcere borbonico a ferro di cavallo dell’isola di Santo Stefano, nel gruppo delle isole ponziane, fu sottoposto, una volta in libertà, alle prescrizioni speciali di Pubblica sicurezza. Per dovere di cronaca si allega la trascrizione del documento che avrebbe dovuto portare sempre con sé.

Carlo D’Angelo, figlio di Tommaso, nativo di Penne, Circondario di Penne, di professione contadino, il quale in forza della sentenza della Gran Corte Criminale in data 12 mese Settembre 1861 rimane sottoposto alla sorveglianza speciale della polizia sino al 12 del mese Settembre 1874 lo si munisce della presente carta di permanenza, che secondo il prescritto dagli articoli 112 e 113 della legge del 13 novembre 1859, egli dovrà sempre avere presso di sé e rendere ostensiva a semplice richiesta ai Carabinieri Reali ed a qualunque Ufficiale od Agente di pubblica sicurezza.
Colla presente sono imposte al D’Angelo Carlo le seguenti prescrizioni alle quali egli dovrà strettamente uniformarsi a pena di essere arrestato.

Prescrizioni speciali:

  1. Di presentarsi a questo Ufficio di P.S. tutte le domeniche ed ogni volta che sarà chiamato per rendere conto del suo operato;
  2. Di ritirarsi la sera alle ore ventiquattro italiane, e non uscire che la mattina a giorno chiaro;
  3. Di non frequentare la compagnia di persone sospette e pregiudicate, né bazzicare nelle bettole od altri luoghi di pubblico ritrovo;
  4. Di non portare armi, né bastoni, né altro oggetto qualunque atto ad offendere;
  5. Di darsi a stabile lavoro e farlo risultare a questo ufficio entro giorni cinque;
  6. Non dovrà assentarsi da Penne senza il preventivo avviso o speciale permesso di questo ufficio;
  7. Non potrà variare casa di abitazione senza prima annunciarlo a questo ufficio. Attualmente l’abitazione resta in contrada San Panfilo, casa Mincarelli.

 supplica

Carlo D’Angelo rimase rinchiuso in carcere in attesa di giudizio per parecchio tempo, fino a quando spazientito scrisse la seguente lettera al Presidente della Corte di Appello dell’Aquila.
“Ill.mo Sig. Presidente della Corte di Appello – Aquila.
D’Angelo Carlo detenuto in Aquila, dovendo essere giudicato dalla Corte per sorveglianza e porto d’arma, per la quale imputazione trovasi in carcere da circa nove mesi, implora dalla giustizia di Vostra Signoria Illustrissima provvegga per la pubblica discussione dell’anzidetta imputazione al più presto che si potrà”.

 

carloLa sentenza non tardò ad arrivare. Il 14 agosto del 1874, la Corte si pronunciò:
“La Corte
dichiara Carlo D’Angelo, detto Cuculo, di Tommaso, di anni 32, contadino, celibe, di Penne, contravventore alla sorveglianza speciale della pubblica sicurezza.
Lo condanna alla pena del caso per la durata di mesi tre compreso quello sofferto precedentemente per detta imputazione, ferma rimanendo la ulteriore sorveglianza nel tempo previsto secondo legge.
Condanna D’Angelo alle spese del procedimento a favore dell’Erario”.

 

 

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